Nel settore della banda larga, i costi di gestione dello streaming video stanno crescendo a un ritmo due o tre volte maggiore delle entrate, vanificando gli obiettivi di investimento e di accessibilità. A rivelarlo è un nuovo rapporto di Strand Consult sul recupero dei costi della banda larga negli Stati Uniti. Il rapporto evidenzia che circa il 70% delle reti a banda larga statunitensi sono occupate dallo streaming video, rappresentato soprattutto da Netflix, YouTube, Amazon Prime, Hulu/Disney+ e Microsoft Xbox. Il problema è che il traffico video occupa la maggior parte della larghezza di banda e ostacola la fornitura di servizi digitali essenziali agli altri abbonati alla banda larga.
In Europa e negli Stati Uniti, l’idea di una tassa sulle grandi piattaforme digitali per contribuire al finanziamento della banda larga sta diventando oggetto di discussione politica. Dal canto suo, Strand Consult suggerisce di coinvolgere le maggiori aziende tecnologiche, come Alphabet, Meta, Amazon, Microsoft, Apple, Netflix e TikTok, nello sforzo di recupero dei costi dell’Usf (Universal Service Fund) e della banda larga. Questo perché, come emerge sempre dal rapporto, tali aziende guadagnano in media 60 dollari al mese per utente del sussidio Affordable Connectivity Program (Acp), destinato alla sottoscrizione della banda larga, senza contribuire finanziariamente ai programmi statali o federali di adozione della banda larga.
Il rapporto fornisce inoltre tre modelli di finanziamento del recupero dei costi e dell’accessibilità: le entrate pubblicitarie, i contributi di indicizzazione ai nuovi utenti e le entrate realizzate dal Programma di connettività accessibile (Aco) e il cloud computing. Valutando la pubblicità online e il cloud computing a una frazione di punto percentuale, si potrebbero generare fino a 5-20 miliardi di dollari all’anno, più entrate di quanto potrebbe fare una tassa a due cifre percentuali sulle telecomunicazioni. In ogni caso, il rapporto sottolinea come sia urgente la riforma dell’Usf, che finora si basava su un’aliquota di contribuzione crescente per i servizi di telecomunicazione in declino, il cui costo è sostenuto dai consumatori attraverso sovrapprezzi sugli abbonamenti.